Concept

L'idea alla base di questo blog è di segnalare le "perle" di saggezza che ci hanno lasciato i diversi saggi. Queste parole sono i riflessi dei concetti eterni, che essi hanno espresso per gli uomini, ognuno secondo la propria cultura di partenza, ma tutti indicando le stesse verità.

martedì 15 aprile 2014

Le sapienze e le religioni del mondo, secondo la Curia Romana

1.1. Le sapienze e le religioni del mondo
(COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, sito della Curia Romana)


12. Nelle diverse culture, gli uomini hanno progressivamente elaborato e sviluppato tradizioni di sapienza nelle quali esprimono e trasmettono la loro visione del mondo, come pure la loro percezione riflessa del posto che l’essere umano occupa nella società e nel cosmo. Prima di ogni teorizzazione concettuale, queste sapienze, che sono spesso di natura religiosa, trasmettono un’esperienza che identifica ciò che favorisce o ciò che impedisce il pieno manifestarsi della vita personale e il buon andamento della vita sociale. Esse costituiscono una sorta di «capitale culturale» disponibile per la ricerca di una sapienza comune necessaria per rispondere alle sfide etiche contemporanee. Secondo la fede cristiana, queste tradizioni di sapienza, nonostante i loro limiti e talvolta i loro errori, colgono un riflesso della sapienza divina che opera nel cuore degli uomini. Esse richiedono attenzione e rispetto, e possono aver valore di praeparatio evangelica.
La forma e l’estensione di queste tradizioni possono variare considerevolmente. Tuttavia sono testimoni dell’esistenza di un patrimonio di valori morali comuni a tutti gli uomini, al di là del modo in cui tali valori sono giustificati all’interno di una particolare visione del mondo. Ad esempio, la «regola d’oro» («Non fare a nessuno ciò che non vuoi che sia fatto a te» [Tb 4,15]) si ritrova, sotto una forma o un’altra, nella maggior parte delle tradizioni di sapienza (7). Inoltre, sono generalmente concordi nel riconoscere che le grandi regole etiche non solo si impongono a un determinato gruppo umano, ma valgono universalmente per ogni individuo e per tutti i popoli. Infine molte tradizioni riconoscono che questi comportamenti morali universali sono richiesti dalla natura stessa dell’essere umano: essi esprimono la maniera in cui l’uomo deve inserirsi, in modo creativo e insieme armonioso, in un ordine cosmico o metafisico che lo supera e che dà senso alla sua vita. Infatti tale ordine è impregnato da una sapienza immanente. È portatore di un messaggio morale che gli uomini sono in grado di decifrare.
13. Nelle tradizioni indù il mondo — il cosmo, come pure le società umane — è regolato da un ordine o da una legge fondamentale (dharma) che bisogna rispettare per non provocare gravi squilibri. Il dharma definisce perciò gli obblighi socio-religiosi dell’uomo. Nella sua specificità, l’insegnamento morale dell’induismo si comprende alla luce delle dottrine fondamentali delleUpanishads: la credenza in un ciclo indefinito di trasmigrazioni (samsāra), con l’idea che le azioni buone o cattive compiute nella vita presente (karman) hanno influenza sulle rinascite successive. Tali dottrine hanno importanti conseguenze sul comportamento nei confronti degli altri: implicano un alto grado di bontà e di tolleranza, il senso dell’azione disinteressata a beneficio degli altri, come pure la pratica della non-violenza (ahimsā). La principale corrente dell’induismo distingue due corpi di testi: šruti («ciò che è inteso», cioè la rivelazione) e smrti («ciò che si ricorda», cioè la tradizione). Le prescrizioni etiche si trovano soprattutto nella smrti, più in particolare neidharmaśāstra (i più importanti dei quali sono i mānava dharmaśāstra o leggi di Manu, del 200-100 a.C.). Oltre al principio di base, secondo il quale «il costume immemorabile è la legge trascendente approvata dalla sacra scrittura e dai codici dei divini legislatori; perciò ogni uomo delle tre classi principali, che rispetta lo spirito supremo che è in lui, deve sempre conformarsi diligentemente al costume immemorabile» (8), vi si trova un equivalente pratico della regola d’oro: «Ti dirò ciò che è l’essenza del più grande bene dell’essere umano. L’uomo che pratica la religione (dharma) del non-nuocere (ahimsā) universale acquista il più grande Bene. Quest’uomo che si domina nelle tre passioni, la cupidigia, la collera e l’avarizia, rinunciandovi in rapporto agli esseri, acquisisce il successo. [...] Quest’uomo che considera tutte le creature come il proprio “se stesso” e li tratta come il proprio “sé”, deponendo la verga punitiva e dominando completamente la sua collera, si assicurerà il possesso della felicità. [...] Non farà all’altro ciò che si considera nocivo per se stesso. È insomma la regola della virtù. [...] Nel fatto di rifiutare e di dare, nell’abbondanza e nell’infelicità, nel gradevole e nello sgradevole, si giudicherà di tutte le conseguenze considerando il proprio “sé”» (9). Diversi precetti della tradizione indù si possono mettere in parallelo con le esigenze del Decalogo (10).
14. Generalmente si definisce il buddismo con le quattro «nobili verità» insegnate da Buddha dopo la sua illuminazione: 1) la realtà è sofferenza e insoddisfazione; 2) l’origine della sofferenza è il desiderio; 3) la cessazione della sofferenza è possibile (con l’estinzione del desiderio); 4) c’è una via che conduce alla cessazione della sofferenza. Questa via è il «nobile ottuplice sentiero» che consiste nella pratica della disciplina, della concentrazione e della sapienza. Sul piano etico le azioni favorevoli si possono riassumere nei cinque precetti (śīlasīla): 1) non nuocere agli esseri viventi e non togliere la vita; 2) non prendere ciò che non è dato; 3) non avere una condotta sessuale scorretta; 4) non usare parole false o menzognere; 5) non ingerire prodotti intossicanti che diminuiscono il dominio di sé. Il profondo altruismo della tradizione buddista, che si traduce in un atteggiamento deliberato di non-violenza, con la benevolenza amichevole e la compassione, raggiunge così la regola d’oro.
15. La civiltà cinese è profondamente segnata dal taoismo di Laozi o Lao-Tse (VI sec. a.C.). Secondo Lao-Tse, la Via o Dào è il principio primordiale, immanente a tutto l’universo. È un principio inafferrabile di cambiamento permanente sotto l’azione di due poli contrari e complementari: lo yīn e lo yáng. Spetta all’uomo sposare tale processo naturale di trasformazione, lasciarsi andare al flusso del tempo, grazie all’atteggiamento di non-azione (wú-wéi). La ricerca dell’armonia con la natura, indissociabilmente materiale e spirituale, è dunque al cuore dell’etica taoista. Quanto a Confucio (571-479 a.C.), («Maestro Kong»), in occasione di un periodo di crisi profonda egli tenta di restaurare l’ordine con il rispetto dei riti, fondato sulla pietà filiale che dev’essere al cuore di ogni vita sociale. Infatti le relazioni sociali si modellano sulle relazioni familiari. L’armonia si ottiene con un’etica della giusta misura, in cui la relazione ritualizzata (il li), che inserisce l’essere umano nell’ordine naturale, è la misura di tutte le cose. L’ideale da raggiungere è ilren, virtù perfetta di umanità, fatta di dominio di sé e di benevolenza verso gli altri. «“Mansuetudine” (shù) non è forse la parola chiave? Ciò che tu non vorresti fosse fatto a te, non infliggerlo agli altri» (11). La pratica di questa regola indica la via del Cielo (Tiān Dào).
16. Nelle tradizioni africane, la realtà fondamentale è la stessa vita. Essa è il bene più prezioso, e l’ideale dell’uomo consiste non solo nel vivere al riparo delle preoccupazioni fino alla vecchiaia, ma soprattutto nel rimanere, anche dopo la morte, una forza vitale continuamente rafforzata nella e con la sua progenie. Infatti la vita è un’esperienza drammatica. L’essere umano, microcosmo all’interno del macrocosmo, vive intensamente il dramma dello scontro fra la vita e la morte. La missione che gli compete, di assicurare la vittoria della vita sulla morte, orienta e determina il suo agire etico. Così l’uomo deve identificare, in un orizzonte etico conseguente, gli alleati della vita, guadagnarli alla sua causa e così assicurare la propria sopravvivenza che è al tempo stesso la vittoria della vita. Questo è il significato profondo delle religioni tradizionali africane. L’etica africana si rivela così come un’etica antropocentrica e vitale: gli atti ritenuti suscettibili di favorire lo schiudersi della vita, di conservarla, di proteggerla, di svilupparla o di accrescere il potenziale vitale della comunità sono perciò considerati buoni; ogni atto considerato dannoso alla vita degli individui o della comunità è giudicato cattivo. Le religioni tradizionali africane appaiono così essenzialmente antropocentriche, ma un’osservazione attenta unita alla riflessione mostra che né il posto riconosciuto all’uomo vivo né il culto degli antenati costituiscono qualche cosa di chiuso. Le religioni tradizionali africane raggiungono il loro vertice in Dio, fonte della vita, creatore di tutto ciò che esiste.
17. L’islàm si considera la restaurazione della religione naturale originale. Vede in Maometto l’ultimo profeta inviato da Dio per ricondurre definitivamente gli uomini sulla retta via. Maometto però è stato preceduto da altri: «Non c’è comunità nella quale non sia passato un ammonitore» (12). L’islàm si attribuisce dunque una vocazione universale e si rivolge a tutti gli uomini, che sono considerati «naturalmente» musulmani. La legge islamica, indissolubilmente comunitaria, morale e religiosa, è intesa come una legge data direttamente da Dio. L’etica musulmana è dunque fondamentalmente una morale dell’obbedienza. Fare il bene significa obbedire ai comandamenti; fare il male significa disobbedire ad essi. La ragione umana interviene per riconoscere il carattere rivelato della Legge e ricavarne le implicazioni giuridiche concrete. Certo, nel IX secolo, la scuolamou’tazilita ha proclamato l’idea secondo la quale «il bene e il male sono nelle cose», cioè alcuni comportamenti sono buoni o cattivi in se stessi, anteriormente alla legge divina che li comanda o li proibisce. I mou’taziliti ritenevano che l’essere umano potesse conoscere con la ragione ciò che è buono o cattivo. Secondo loro, l’uomo sa spontaneamente che l’ingiustizia o la menzogna sono cattive, e che è obbligatorio restituire un prestito, allontanare da sé un danno, o mostrarsi riconoscenti verso i propri benefattori, il primo dei quali è Dio. Ma gli ach’ariti, che dominano nell’ortodossia sunnita, hanno sostenuto una teoria contraria. Fautori di un occasionalismo che non riconosce alcuna consistenza alla natura, ritengono che soltanto la rivelazione positiva di Dio definisca il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Tra le prescrizioni di questa legge divina positiva, molte riprendono i grandi elementi del patrimonio morale dell’umanità e si possono mettere in relazione con il Decalogo (13).

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